La fine del mondo sta arrivando, mamma, butta la pasta | Parte Terza - Centro Studi Sereno Regis

2022-07-30 12:15:11 By : Ms. andrea chen

Nella quale si risponde alle ultime domande e si tirano conclusioni che aprono ancora più domande

Il giorno in cui il capitalismo sarà costretto a tollerare le società non capitaliste e a riconoscere limiti nella propria ricerca del controllo, il giorno in cui sarà obbligato a riconoscere che i suoi approvvigionamenti di materie prime non sono illimitati sarà il giorno del cambiamento. Se c’è una qualche speranza per il mondo, non risiede nelle sale conferenze sul cambiamento climatico […] (ma, ndr) a livello del terreno, in quanti combattono ogni giorno per proteggere le loro foreste, le loro montagne e i loro fiumi perché sanno che le foreste, le montagne e i fiumi li proteggono.

Arundhati Roy, The Trickledown Revolution.

La parte precedente chiudeva con uno stralcio da un documento del Genoa Social Forum, cristallizzato all’epoca in cui fu redatto. Attuale nei toni e nei termini, porta in grembo un monito inquietante: in vent’anni non è cambia la nostra lotta, com’è cambiato ciò contro cui lottiamo?

La fine del mondo sta arrivando, mamma, butta la pasta | Parte Seconda

Per iniziare, può essere utile precisare perché per raggiungere ciò che ci siamo prefissati i governi non sono il fine, ma gli strumenti. E il focus dell’azione sono le corporazioni, non i partiti.

Dal 2005 in poi, dopo il fallimento dell’azione diretta dei popoli, le tematiche portate dagli attivisti sono rimaste inevitabilmente sui tavoli. Le aziende e le grandi corporazioni che prima erano al banco degli imputati per le devastazioni ambientali, i profitti sconsiderati, centralizzati a scapito di lavoratori e biodiversità, hanno iniziato a fare promesse luccicanti, come la carbon neutrality, politiche di zero waste, zero deforestation, riciclo completo e via dicendo.

A tracciare uno storico di come la corporation si racconta, è facile desumerne quanto sia una semplice operazione di marketing, la migliore, la più sottile e subdola evoluzione delle grandi campagne pubblicitarie degli anni ‘90 di Benetton, Nike, Guess o Chevron. Quello che sta  accadendo non è semplicemente il green washing di poche aziende, ma un re-immaginare il capitalismo portandolo verso qualcosa che venga percepito come verde, naturale, cosciente solo nell’apparenza. Il filantrocapitalismo di persone come Bill Gates o Elon Musk incensato da Di Caprio come il salvatore del pianeta.

L’essenza nuova con la quale le corporazioni (che in trent’anni non hanno fatto alcuno sforzo degno di nota, pratico, per diminuire l’impatto sull’ambiente, sui corpi e le menti, ma che anzi hanno espanso il loro potere e la loro pervasività) si vendono è che il loro principale obiettivo, ora, non sia più di fare profitto per gli investitori, ma di rendere un servizio alla società. Una volta McDondald’s, negli USA, interveniva nei menu scolastici mentre Coca Cola brandizzava i libri di testo. Ora il marketing ha preso la forma di donazioni, piccole parti di dividendo, piccoli segni tangibili di una supposta buona volontà, mentre con il resto del profitto continuano la speculazione e a perseguire i propri obiettivi. Come accadeva per i finanziamenti delle industrie di tabacco alla ricerca sul cancro o delle compagnie aeree per il rimboschimento. Ora è la prassi.

Ed è così che una banca, attraverso una sussidiaria dal nome giovanile può finanziare progetti di economia circolare e di filiera corta, col loro bel logo (progettato da un istituto di design dopo vari sondaggi tra gli utenti che seguono influencer green) e nel frattempo coi propri fondi investire indisturbata nel carbone e nel petrolio. In breve, quello che fanno ora le corporazioni è nascondere la propria immagine di fronte a investimenti, coscientemente anche di basso profilo, come veri benefattori, che sono a tutti gli effetti la creazione di un alibi.

Klaus Schwab, fondatore e direttore del World Economic Forum, la definisce, ipse dixit, una “speciale responsabilità sociale”, ovvero che per gli ingenti profitti, i danni ambientali, sociali, culturali ed economici che arrecano, le corporazioni sono tenute ad investire ciò che una volta investivano nel marketing, nella creazione di inutili aiuti alla popolazione. Non importa che nel frattempo questo dia loro modo di continuare e anzi perfezionare la ricerca di profitto alimentando quegli stessi danni, centralizzando in loro un potere che spesso supera quello di persone elette democraticamente e al governo. Come un boia che mentre affila la lama, ti porge un bastone per fabbricarti una freccia.

Sui profili social di ogni azienda sembra quasi che non si cerchi più il profitto, anzi, sembra che i guadagni siano un benevolo effetto collaterale della generosità di aver finanziato un meeting di giovani sul clima, un concerto di artisti indie o un progetto universitario sul riciclo della plastica. Ogni brand ha una personalità che non è più nei prodotti che vende, ma nelle battaglie sociali che sostiene. Vediamo un esempio.

L’idea è che dando indietro una parte di ciò che si prende, si possa continuare a prendere all’infinito. Ma non è più qualcosa che è stato deciso dai governi e dai cittadini, non si tratta di tasse, programmaticamente evase (o meglio, direbbero i commercialisti, eluse) per miliardi di euro, no, si guadagna spropositatamente e si da indietro una parte infinitesimalmente piccola in fondi per costruire spazi di coworking o per borse di studio. Una carità di scarto.

La verità è che non esiste alcun tipo di responsabilità sociale per una corporazione. Benché abbia gli stessi diritti di un essere umano, non ha morale, non ha principi o valori. E se venisse imposta una responsabilità che vada contro gli interessi dei propri investitori, la corporazione farebbe di tutto per piegare leggi, volontà e vite. Non importa cosa professi direttamente nelle proprie infografiche colorate su Instagram, nelle proprie ad su Youtube o cosa dica il proprio CEO ai Ted Talk. John Browne della British Petroleum cercava di fare tutto il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul cambiamento climatico in ogni salotto e in ogni radio, già dal 2005, continuando a fare profitti da record col petrolio. Il suo attivismo, anche fosse genuino, viene sempre dopo gli interessi della corporazione per la quale lavora.

Sempre nel 2005, in Texas, esplode una raffineria proprio della BP, uccidendo 15 persone. Il CEO, onestamente sconvolto, impone la kafkiana regola che la sicurezza non deve mai essere piegata per la performance economica. Servivano 15 morti per la scoperta. Pubbliche relazioni. Nemmeno un anno dopo, avviene una perdita di petrolio immensa in Alaska perché non c’è alcun tipo di manutenzione di BP sulle tubature. La decisione è chiara: risparmiare soldi a tutti i costi e dopo tamponare e correggere dove non funziona. Ma BP garantisce che questo evento è stata come un epifania sui propri deficit e che ciò non si ripeterà più. Paga una multa salata. Pubbliche relazioni.

Nel 2006 BP viene criticata per abusi dei diritti umani durante la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Quattro anni dopo, avviene il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon sempre della BP, con milioni di barili di petrolio ammassati nei fondali marini, il più grande disastro ambientale della storia americana, 11 morti, 17 feriti e ripercussioni nella flora e fauna per tutti gli anni a venire. Vi risparmio le pubbliche relazioni.

Nel 2020 la compagnia ha iniziato a investire una piccola parte dei propri dividendi con l’obiettivo di ridurre le sue emissioni nei prossimi decenni. Di fronte alla scelta di fare del bene per la comunità o di fare del bene per gli investitori non esiste e non può fisiologicamente esistere azienda che scelga la prima opzione. Secondo i consulenti dell’FBI per la psicopatia consultati nel documentario The Corporation, ogni corporazione è innatamente psicopatica, se vista come persona giuridica, BSM-V alla mano. Indifferenza verso i sentimenti altrui, incapacità di mantenere rapporti duraturi, irresponsabilità e noncuranza per il benessere altrui, tendenza a mentire e truffare per ottenere profitto, incapacità di provare senso di colpa, incapacità di conformarsi alle norme sociali e a rispettare le leggi, uso del fascino e della seduzione per raggiungere i propri fini.

Gli amministratori delegati hanno dei ruoli precisi. Devono truffare, devono licenziare, devono inquinare. Non hanno libertà, tanto è stretto il legame capitalista tra azionisti e corporazioni. Come precisato da Chomsky, è la differenza tra istituzione e individuo. La schiavitù è di per sé mostruosa, ma può essere praticata da persone generose, amichevoli e premurose, finanche coi propri schiavi. Questo in quanto individui, ma nel ruolo istituzionale, ritornano dei mostri perché è l’istituzione stessa a richiederlo.

Per farla semplice e non perdersi negli infiniti esempi che un mondo troppo generoso ci offre: nessuna azienda privata al mondo può autoescludersi dagli affari, può solo puntare ad aumentare il proprio mercato, piegando o fuggendo, in base ai soldi a disposizione, dalle leggi.

Per questo motivo, se l’obiettivo è invece una transizione ecologica, questa dev’essere gestita da e per il settore pubblico, così che ogni profitto, anche di energie “ponte” come il gas naturale, possa essere effettivamente reinvestito in tecnologie rinnovabili e al settore del gas sia impedito di crescere esponenzialmente facendo stagnare gli altri settori. A cascata si apre lo spazio di manovra per cambiare il sistema di consumo, sia quello collettivo che quello individuale e ridisegnare il nostro futuro.

Escono costantemente libri di approfondimento sull’impatto ambientale della vita digitale, sulla storia della plastica, ma se non diventa azione che limiti l’operato delle corporazioni, tutto ciò non è considerabile attivismo. Serve prima aprire questo spazio di lavoro. Combattere corruzione e finanziamenti della politica e poi smontare i giganti. La risposta alla domanda iniziale è che, no, ciò che sta distruggendo il pianeta non è cambiato nella sostanza, il nemico attuale è sempre ancora uguale, è cambiato il modo di comunicare e nel frattempo, per rendersi introvabile, si sta astraendo nel digitale.

Non c’è possibilità di redenzione? La moderna società dei capitali, nata con la rivoluzione industriale, si basa sulla produzione. Sulla crescita infinita. E come già citato, è un principio che si scontra logicamente con un sistema chiuso con risorse limitate che si mantiene in equilibro grazie allo scambio.

Negli Stati Uniti prime corporazioni non potevano possedere altre corporazioni, gli investitori erano responsabili ed erano regolate da precise licenze limitate, come ad esempio per quanto tempo potevano esistere o l’ammontare massimo del capitale. Era tutto stabilito da rigide normative, perché si trattava di unioni straordinarie subordinate ai fini di costruzione di beni pubblici: grandi opere e infrastrutture, niente più. Ora suona come un romanzo di Asimov.

Già alla fine della Guerra Civile i corporativisti cercarono ogni strada possibile per deregolamentare queste limitazioni. Il quattordicesimo emendamento fu approvato per garantire ai cittadini di colore gli stessi diritti di quelli bianchi, dicendo che “nessuno stato potrà privare una qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un equo processo”, ma quello che i sudisti non sapevano mentre morivano nella più grande guerra che gli USA abbiano mai combattuto per numero di vittime, è che tra diversi unionisti industriali non si aspettava altro che rendere il “profitto” della corporazione un “essere umano”, altro che abolizione della schiavitù.

Della serie, se proprio gli schiavi, ovvero gli strumenti, devono avere diritti umani, allora anche la corporazione che usa quegli strumenti, li avrà e si sarà, apparentemente, ex aequo. Fra il 1890 e il 1910 furono portati in tribunale 307 casi che si appellavano al quattordicesimo emendamento. 288 presentati dalle aziende e appena 19 dagli afroamericani.

In questo momento, Coca Cola (che sta volontariamente creando un’epidemia alimentare in Messico e usurpando tantissime falde acquifere, anche in Italia, a prezzi di concessione stracciati) ha molti dei diritti giuridici di una persona. Può comprare e vendere proprietà, può prestare e farsi prestare denaro, può far causa o essere denunciata, può e deve sopravvivere. Sono tutti diritti garantiti per legge negli USA, però sono diritti di una persona immortale e senza coscienza morale che ha il solo scopo di tutelare il profitto, non l’ambiente, non la società o i propri simili. Abbiamo creato dei mostri.

Come disse il barone Thurlow, non hanno un’anima da salvare né un corpo da incarcerare. E il ruolo del marketing è proprio quello di dar loro entrambi. Una personalità, dei valori, addirittura dell’attivismo, sentimenti, orientamenti politici e principi. Ed ecco che da persone giuridiche diventano persone a tutti gli effetti.

Ma per quanto possano finanziare progetti sostenibili, vendere borracce brandizzate e sacchetti di carta, la verità è che l’unica necessità è la bottom line: come aumentare i profitti ad ogni bilancio. Le grandi società di capitali, attraverso una serie di decisioni giuridiche, sono tenute per legge a mettere gli interessi degli azionisti e dei proprietari al di sopra di ogni cosa, anche del bene pubblico.

Usano l’esternalità come filosofia, senza cattiveria o intenzionalità, con lo stesso istinto innato di uno squalo a fare ciò per cui è stato creato. Le corporazioni devono fare profitti immediati e dunque esternalizzano i costi fin tanto che il pubblico gli permette di farlo. Nello spazio pubblico, nelle economie, quelle di produzione e di consumo. Si legga, per essere chiari: la situazione lavorativa in Italia è disastrosa, ma abbiamo statuti, leggi e soprattutto sindacati. Un dipendente della Nike in una sacca snazionalizzata ha il tempo di lavoro frazionato in millesimi di secondo per la produzione e prende 3/10 dell’1% del prezzo di vendita di un capo. L’azienda produce esentasse e assume intere città nelle quali le persone hanno appena i soldi per arrivare a fine giornata, non a fine mese. Le conseguenze culturali, sociali, economiche, geopolitiche e politiche sono incalcolabili. È a tutti gli effetti schiavitù.

Ma mentre i non-bianchi dell’Occidente hanno diritti da esseri umani, le aziende, con gli stessi diritti, vanno in giro per il mondo (perché non hanno corpo) a sfruttare chi non li ha, per poi rivendere, grazie agli stessi diritti, i propri prodotti anche ai non-bianchi dell’Occidente, che aumentano il bacino di compratori. Se per assurdo, le persone si disinteressassero del clima, le aziende, per continuare a guadagnare, se ne dimenticherebbero conseguentemente. Il mercato è come un mimo che imita i tuoi gesti con una mano e con l’altra continua a lavorare indisturbato.

Negli Stati Uniti, da Walmart, si può trovare una maglietta di Kathie Lee Gifford con l’etichetta che dice di donare parte dei proventi ai bambini più poveri. Quella maglietta è stata fatta in Cina da un bambino di 12 anni per appena tre centesimi l’ora. Quando negli anni ‘90 una delle lavoratrici, Wendy Diaz, incontrò di persona Kathie Lee e la accusò di sfruttamento del lavoro minorile, fu ascoltata al congresso degli Stati Uniti, scatenò una bufera nazionale, accordi con il Comitato Nazionale per il Lavoro. Tutta la nazione ora sa dei lavoratori sfruttati, del lavoro minorile. Sono passati vent’anni, ma da El Salvador alla Cina, si producono ancora le stesse magliette.

Richiedere diritti civili senza diritti sociali renderà geneticamente, culturalmente inclusivo il capitalismo, ma non renderà egualitario e interclassista il sistema. Un CEO negli anni ‘50 prendeva venti volte lo stipendio del proprio dipendente di salario più basso, in media. Oggi prende in media 270 volte di più (con picchi di mille volte, si noti, come per la JPMorgan).

Combattere parti di battaglie sociali senza cambiare il sistema renderà il sistema visivamente più accomodante, ma non cambierà la sostanza. Creerà problemi a effetto domino per cui i ricchi inquineranno perché possono farlo e i poveri inquineranno perché non possono fare altro. È quello che succede ad esempio in India. Ci saranno CEO multimiliardari di origini afroamericane e nel frattempo i loro dipendenti continueranno a morire di fame. Louis Brandeis diceva chiaramente che si può avere la democrazia o grandi concentrazioni di benessere, ma non si può avere entrambi. Per questo, torna fondamentale l’idea di un fronte unito unitamente contro il sistema tutto, per un nuovo paradigma della vita e della produzione.

L’obiettivo delle corporazioni per indebolire i governi è molto semplice. Il potere economico è ora nelle loro mani e una rivoluzione ambientale non potrà avvenire senza aver ripreso i miliardi di dollari ed euro rubati attraverso tassazioni schivate da parte delle maggiori corporazioni. N

essuna grande manovra, nessun grande cambiamento potrà essere varato senza essersi ripresi quei soldi. È la strategia delle multinazionali: creare deficit attraverso l’evasione fiscale e la delocalizzazione, rendendo così impossibile per un governo rendersi indipendente da grandi corporazioni e affrontare i problemi sociali.

Numerose aziende come Apple (con 246 miliardi), Pfizer (con 199 miliardi), Microsoft (con 142 miliardi), IBM (con 71 miliardi) hanno fondi ingenti ufficialmente conservati in conti offshore, in paradisi fiscali. E queste sono le quantità dichiarate. Soltanto per le prime 12 aziende americane si parla di un milione di miliardi di dollari di fondi non tassati. È una cosa che si è anche acuita durante la pandemia per aziende come Amazon e Pfizer.

Andrà tutto bene era la preghiera che si ripetevano gli investitori. Tutto tornerà come prima era la speranza dei dirigenti d’azienda. Ed è andata esattamente così.

Il piano è questo: creare scarsità, negare la presenza di risorse e dopo privatizzare. Durante la pandemia si è visto un impianto sanitario del tutto impreparato ad affrontare l’emergenza, dopo anni di mutilazioni privatizzate, dipendenti di UPS, Tesla e altre grandi aziende sono stati costretti ad andare a lavoro malati, in un periodo storico del quale non si sapevano ancora nemmeno le conseguenze a breve termine del COVID-19, Amazon ha combattuto senza quartiere ogni tentativo di creare sindacati per la tutela dei lavoratori. Tutto questo è ovviamente anche causa della deregolamentazione, che era solo questione di tempo.

È ingenuo a livelli ridicoli credere che le corporazioni possano autogestirsi:

Secondo professori emeriti di medicina ambientale all’università dell’Illinois gran parte dell’epidemia di cancro attuale è da attribuirsi alla responsabilità diretta delle aziende. Esporre i consumatori a sostanze che si sa che le uccideranno in che modo è diverso dallo sparare a qualcuno? Un uomo su due e una donna su tre nel corso della propria vita incontrano il cancro. Lo stesso discorso vale anche per gli insetticidi nelle coltivazioni, gli allevamenti intensivi, per il disboscamento delle foreste, per il riciclaggio, lo stoccaggio, l’estrazione, i trasporti e ogni parte della produzione di un qualche prodotto. Il problema è proprio considerare ogni cosa un prodotto commerciabile. Dai corpi, alla vita in ogni suo aspetto (molti geni, la base della vita, sono attualmente brevettati e di proprietà di corporazioni, il topo di Harvard è brevettato in Europa, Giappone e Stati Uniti.).

Il rispetto delle leggi è una questione di convenienza e costi, se la possibilità di essere scoperti e la pena sono inferiori al risparmio, allora è solo una scelta economica. Aumentare le sanzioni non farà altro che centralizzare le opportunità nelle mani di chi ha più soldi e possibilità, rendendo ancora più stagnante l’economia e più forti le aziende più grandi. Chi ha la responsabilità di tutto questo? Un ponte? Un muro? Perché dovrebbe esserne responsabile una struttura legale artificiale?

Le persone coinvolte, dirigenti, azionisti, dipendenti, hanno responsabilità legali innegabili. Trovarsi in questo meccanismo porta a viverci e somatizzarlo, per cui sarà necessario cambiare sistema. Ma chi combatte e combatterà per preservarlo ha una responsabilità morale non ignorabile.

Alla luce di tutto questo, va sicuramente ridimensionata la narrazione di molti movimenti ambientalisti che pretendono lo stato di emergenza come panacea burocratica. Ancora una volta, le parole plasmano il mondo in cui viviamo e l’emergenza è, per definizione stessa, un momento critico, inaspettato, che richiede un intervento mirato.

Un temporaneo deragliamento da un sistema altresì perfetto, lo stato di emergenza non dà alcuna garanzia: è temporaneo e quanto dovrebbe durare? Una volta rientrati i livelli preoccupanti di inquinamento o una volta reso il sistema sostenibile ed egualitario? È l’esatto contrario di ciò che serve. Non aggiustare il sistema, ma cambiare direzione e paradigma.

Stesso valga, anche peggio, per lo stato di calamità. Un evento funesto incontrollabile che si auto-assolve nella sua naturalezza e che riporta il focus stringente alla contingenza. Bisogna tamponare e resistere. No, serve uno stato di rivoluzione, di insorgenza nel senso di sollevazione e risorgimento, che ammetta e comprenda cause e responsabilità, ma anche soluzioni. Chi ha deciso che la terra può essere privata? Che gli stati possono reclamare spazi marini per poterli sfruttare? E i corridoi aerei?

Ciò che succede è che con la deregolamentazione diventa tutto privato. L’aria buona, l’acqua cristallina, un ambiente sano, cosa sono se non ricchezze? Eppure, diventano tali sono quando vengono privatizzate, quando c’è una recinzione intorno e un logo sopra. Privatizzare qualcosa non vuol dire prendere un bene pubblico non valorizzato e metterlo nelle mani di qualcuno che è invogliato a farlo risaltare, ma trasformarlo in una tirannia priva di responsabilità che deve spremere quel bene per sopravvivere. Fino a qui tutto bene, il problema non è la caduta, è che non ci sarà un atterraggio.

Inoltre, richiedere a un corpo politico che ha dimostrato negli anni di non avere gli strumenti, il potere e la volontà di tutelare in primis l’ambiente, è drammatico autolesionismo. Chi monitorerà l’operato delle regioni, una volta dichiarato lo stato di emergenza climatica? Quali sono i margini di lavoro, dal momento che non è legiferato effettivamente un iter? Il grado di trasparenza, equità? Le azioni da intraprendere? Verranno scelte da scienziati e in seguito approvate dai cittadini? O nessuna delle due?

L’assunzione di responsabilità politica, per un politico, è un atto retorico come un altro. La città di Milano ha dichiarato lo stato di emergenza climatica quattro anni fa. Il limite temporale ultimo per l’attuazione delle misure è entro il 2050. Nel piano approvato si parla di ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro trent’anni (del tutto ininfluente), rientrare nei valori limite delle concentrazioni di PM10, PM2,5 e NOx (ossidi di azoto e polveri sottili, per intenderci.

Il limite di legge italiano è comunque il doppio di quello raccomandato dall’OMS e diventa anche il quadruplo quando si parla di limiti previsti delle norme UE per la qualità dell’aria) o di diventare una città carbon neutral (una formula degna del Conte Mascetti per giustificare qualsiasi consumo a patto che poi vengano fatte azioni che compensino i gas climalteranti emessi, id est, per capirci: l’estrazione di petrolio produce una grande quantità di gas naturale, se venissero costruite infrastrutture utili per riutilizzarlo potrebbero soddisfare il fabbisogno di intere nazioni, ma le multinazionali preferiscono bruciarlo a cielo aperto per risparmiare denaro. Il gas flaring, in Nigeria, costituisce il 40% delle emissioni del paese. Se Shell decidesse di interrompere la pratica, risulterebbe carbon neutral).

Ma il piano di emergenza climatica stilato dal comune prevede anche azioni di raffrescamento urbano per contribuire a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi e altre strategie che fanno onestamente temere l’evenienza nemmeno troppo remota che queste vengano attuate su scala nazionale. Il Piano Aria e Clima, così chiamato, è stato redatto dopo una consulta pubblica alla quale hanno partecipato più di diecimila cittadini. Questo è il risultato. L’appellarsi tout court a frasi come città sostenibile e inclusiva, vivibile, consapevole, lascia uno spazio di manovra ingiustificato. Come volevasi dimostrare, la città ha continuato ad asfaltare, aumentato il consumo energetico e la qualità dell’aria sta continuando a peggiorare, allertando inoltre l’Unità complessa di epidemiologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori. In compenso, secondo un rapporto di Legambiente, nelle scuole milanesi i ragazzi si stanno abituando a bere dal rubinetto grazie alle borracce.

Allo stesso modo rappresenta una sorta di curioso deficit cognitivo l’accusa a enti locali per responsabilità sistemiche. Spostare il problema dalla propria città non risolverà niente. Da casa, si continua ad aspettare, sperando che qualche nuova tecnologia imposta dalle circostanze costringerà le aziende a ridurre le emissioni e diventare sostenibili. Al di là delle tinte fantasy di questa speranza, non esiste tecnologia all’interno di questo sistema che possa tornare utile. Perché lo sviluppo è inteso, per tornare alla definizione della prima parte, come produzione e non come sostenibilità. Infatti, dati alla mano, i metodi di estrazione del greggio, di gas naturale, come il fracking, la produzione di lignite, i depositi di sabbie bituminose, più tecnologici e innovativi, sono molto più inquinanti della tradizionale produzione di petrolio. Spasmi di un suicidio da dipendenza.

Non è obiettivo di questa riflessione criticare alcun tipo di realtà ambientalista, quanto fare un’autoanalisi che possa dare nuove strade d’azione e riflessione. Ma è sicuramente mortificante che una delle più grandi associazioni mondiali, da molto attiva anche in Italia, inviti alle donazioni i propri sostenitori come unica azione possibile, indicando tra l’altro che la donazione servirà a “costringere le multinazionali a impegnarsi per ridurre le proprie emissioni”. Tanto vale dire che le donazioni sono soldi buttati in principio.

Questi sono i motivi per cui bisogna concentrarsi sul sistema di produzione stesso, che estrae irresponsabilmente senza considerare le certe materie sono limitate e altre hanno bisogno di tempo per rigenerarsi e non sono i tempi di consumo del capitalismo usa e getta, la produzione che nel processo di raffinazione dalla materia al prodotto produce tossine e scarti che hanno impatto su tutto il pianeta, ma vengono considerati mali necessari, indipendentemente dal fatto che il prodotto sia necessario o meno o che quelle tossine fossero evitabili o meno.

Poi c’è la distribuzione che ricopre il prodotto di packaging superfluo, volto a renderlo più appetibile perché gran parte della nostra produzione è superflua; dunque, lo fa viaggiare per tutto il mondo con il solo fine di risparmiare rispetto alla vendita locale. Infine, c’è il consumo, nel quale il cliente utilizza il prodotto che ha avuto un costo ambientale immane, per pochissimo tempo, perché non deve smettere di consumare nuove cose.

La corporazione ha deciso l’intero modello e nessun governo ha il potere o la volontà di imporre diversamente se non lo pretendono i popoli. Dovrebbe far riflettere: le corporazioni pensano al futuro, immaginano il futuro che desiderano e lo costruiscono. Noi no. Bisogna combattere l’insensibilità, la deumanizzazione, per ritrovare la solidarietà, l’olismo del sistema, la vista aerea storica e biologica. Spiegare chiaramente le modalità con cui questo può venire e come può essere strutturato il nuovo sistema. Ma soprattutto attuare modalità di resistenza civile che non possano essere cooptate, digerite e utilizzate contro il movimento ambientalista come nell’haikido.

Sono solo 100 aziende che creano il 71% delle emissioni globali. Ma non è che dividendole (come spesso già fanno) versione matrioska, si risolverebbe il problema. Ad esempio, creando cooperative locali e socialmente possedute, pubbliche e trasparenti, si avrebbe effettivamente il controllo su di esse per riuscire efficacemente ad effettuare transizioni energetiche, come si è visto in Danimarca.

Nel privato, la devastazione crea opportunità per broker e corporazioni che dai pozzi bruciati di Saddam Hussein ai primi scontri nel Donbass non hanno fatto altro che investire, fare pressioni e muovere capitali. Al contrario, il pubblico non ha stringenti obblighi economici e può pianificare in prospettiva di sostenibilità futura, possono andare in perdita, di proposito, con tutti i vantaggi che ne conseguono.

Se un’azienda elettrica lavora in perdita, fornirà energia a buon mercato alle altre aziende, e può essere indubbiamente positivo. Il pubblico può avere una funzione anticongiunturale, mantenendo gli operai anche durante i periodi di recessione: aumentare la domanda e aiutare ad uscire dalla crisi.

Non si hanno possibilità se non si smantella il potere economico e quello digitale dei big data delle corporazioni. La nuova sfida è anche quella di rendere il re nudo, svelare questi nuovi subdoli meccanismi e mostrare la loro reale natura. L’alternativa è venire eternamente battuti sul tempo, smontati mentre si costruisce qualcosa. Non è la privacy il costo dei servizi digitali, ma il controllo.

Ci si è spostati senza accorgercene, negli ultimi vent’anni, da un’economia di mercato ad una società di mercato, il primo è uno strumento organizzativo, come precisa Micheal Sandel, la seconda è una condizione in cui tutto è in vendita e il confine tra l’essere un cittadino ed essere un consumatore è invisibile. In questo contesto, ciò che fanno le corporazioni è cancellare la nostra immaginazione di un mondo migliore e durante questa anestesia, dare speranza attraverso le loro pubblicità, che qualcuna di loro farà qualcosa per risolvere la crisi climatica.

Li percepiamo come grandi entità che davvero possono fare qualcosa, mentre i loro profitti aumentano e gli stati letteralmente crollano su sé stessi. La popolazione continua a consumare. Ma non perché ignorante sui temi. Perché non ha futuro. Ecco come siamo cambiati, assieme al mercato. Saturi, sovrastimolati fino all’atrofia e insensibilità, vittime della velocità della vita e della compulsione dei media. Del godimento istantaneo come fuga dal presente e dal futuro. Ogni cosa, è lontana da noi.

I colossi energetici sono fermamente convinti che non riusciremo a fare nulla. Gli investimenti in questo senso di Shell, Chevron, Exxon, BP, con l’apertura di immensi stabilimenti e piatteforme, prevedono di continuare con l’attuale produzione almeno per trent’anni, segno che nonostante tutto il supporto al green, nessuna corporazione preveda un’effettiva conversione.

Ancora una volta, non si tratta di una volontà specifica delle aziende: per un virus senza cervello che deve solo crescere, equivarrebbe al suicidio. Si tratta altresì di necessità del capitalismo. Ogni azienda che fa affari estraendo le risorse deve presentare agli azionisti la promessa di avere un tasso di rimpiazzo delle riserve del 100%, solo così c’è garanzia per gli investitori di fare affari a lungo termine.

Così come un brand d’abiti o automobilistico mostra i preordini sulla produzione dell’anno successivo. Quando nel 2009 Shell annunciò che il suo tasso di rimpiazzo delle riserve era drammaticamente sceso al 95% il terrore corse veloce tra gli investitori. L’azienda s’affrettò a rassicurare il mercato: avrebbe immediatamente bloccato ogni investimento nell’eolico e nel solare e li avrebbe spostati nel petrolio da acque profonde e sabbie bituminose. In breve, Shell integrò le riserve accertate triplicando la produzione dell’anno prima e portando il tasso di rimpiazzo al 288%. Le quotazioni in borsa salirono. Fine della storia, non c’è altro nella naturalezza auto-evidente del mercato.

La costruzione di infrastrutture attuali da parte delle succitate aziende prevede rientri economici entro i prossimi sessant’anni. A fronte di investimenti di miliardi di dollari, è chiaro che non siano scommesse, ma certezze date dalla nostra incapacità di organizzarci, dalle rassicurazioni del governo e dal loro potere.

Come testimoniato da Marc Barry, spia industriale, è facile trovare nella stessa sala: CIA, DEA, NSA, FBI, autorità di dogana e servizi segreti assieme a Coca Cola, Mobile Oil e Kodak. Non esiste alcun confine, l’industria e il governo si consultano vicendevolmente e lavorano assieme. Non è una cosa che il partito di maggioranza deve necessariamente sapere perché non è nei partiti che risiede il potere. Eppure, loro pianificano, immaginano, noi no. Per questo, ripetendo ormai un canovaccio chiaro in queste riflessioni è che dobbiamo riprenderci la fantasia del futuro. Avere chiaro, visivamente, il modello che vogliamo. E poi fare di tutto per adottarlo. Ne va della vita di tutti.

Precisando che l’obiettivo di questa riflessione non era stabilire cosa desiderare, quanto come desiderarlo, è arrivato il momento di tirare le somme.

Sono molti gli strumenti, a disposizione, legislazione, cause, azione diretta, istruzione, boicottaggi, investimenti sociali. La rivoluzione si farà con tutti i mezzi necessari. Ma nessuno strumento farà la rivoluzione. Ci sarà bisogno di un profondo cambio di paradigma nella mentalità. E di ripresa dell’idea del futuro. Non saranno le piccole azioni individuali, il risparmio dell’acqua del rubinetto, il led di una TV o il cambio di una lampadina a salvarci (benché serva sicuramente anche un cambio di alimentazione individuale).

Come ricorda il climatologo dell’istituto geologico della Danimarca e della Groenlandia, Jason E. Box, anche se le temperature attuali dovessero fermarsi e smettere di salire, nel giro di dieci anni la Groenlandia sparirebbe. Serve abbandonare il millenarismo, così come il catastrofismo e la ricerca del Grande Altro per proporre subito alternative che diano contesto e che siano contingentemente unite a tutte le battaglie sociali per un mondo migliore.

Un movimento ambientalista non può essere solo tale o non sarà niente. Serviranno azioni di disubbidienza che non mirino al farsi accettare dalle istituzioni, ma a imporre a istituzioni e aziende. Al di fuori dell’attivismo, non esistono alleati. Sarà inevitabile spostare anche online le azioni. Se il mercato è un mimo, giocheremo allo stesso gioco e lo seguiremo battendolo sul tempo. Non con la condivisione di scarne infografiche aziendaliste né con irriverenti meme preconfezionati, sarebbe solo dare altro potere al capitale.

Servirà far germogliare una nuova etica hacker e capire come questa sia l’azione nonviolenta per eccellenza, la più funzionante e funzionale nel 2022. Uno dei modi migliori per ridisegnare il potere delle corporazioni.

Invitare alla disobbedienza civile nell’hacktivismo farà tremare uno dei pilastri del castello dove le corporazioni si stanno nascondendo. Non si possono fare scioperi in una fabbrica che è completamente digitale. Ma si può fare un attacco DDoS al sito e renderlo inattivo per giornate. Oppure si può replicare le infrastrutture con l’aiuto di dipendenti.

L’interessante articolo di John Scales Avery pone infatti l’accento sulla relazione tra nuovo modello e nuovo paradigma digitale. Per supportare un cambiamento del genere servono inevitabilmente nuove infrastrutture digitali, decentralizzate, a basso consumo, peer-to-peer e open source. Ma non finisce qui, ripensare il mondo digitale con l’aiuto di diversi pensatori, da Stallman a Lovink, permetterà un uso consapevole e rispettoso di sé e dell’altro di Internet.

È incredibile poi cercare di ammaestrare le bestie che abbiamo creato, pensare di applicare delle leggi e poi restare per sempre a sorvegliare sistemi che esulano dai confini nazionali e da dinamiche facilmente monitorabili. Le uniche riforme devono limitare il potere, suddividerlo, localizzarlo e distribuirlo tra la popolazione. Così facendo sarà possibile invertire il paradigma della crescita infinita, del profitto e del consumo mettendo di fronte la sostenibilità e l’uguaglianza.

Bisogna capire che gli scienziati sono politici e che quando ci si scontra contro potenze dalle disponibilità economiche illimitate, si può avere dalla propria scienziati, professori universitari, FDA, governo, istituzioni e così via. I fratelli Koch, ad esempio, direttori di una delle maggiori corporazioni produttrici di petrolio, contestualmente sono i maggiori finanziatori della macchina negazionista. Sono tantissime le associazioni, solo negli Stati Uniti, come il Fraser Institute, l’Heartland Institute, il Cato Institute, la The Heritage Foundation o la American for prosperity che fa capo direttamente alla Koch Industries.

Non basterà informare, non basterà appellarsi al fatto che il cielo è blu. Bisognerà far accettare la scelta politica di seguire gli scienziati e dopodiché declinare politicamente le conclusioni degli scienziati stessi. E prepararsi a resistenze senza quartiere. In Italia i pendolari sono stati dilaniati nelle stazioni, manifestanti sono stati uccisi a sangue freddo nelle piazze, attivisti sono stati fatti saltare in aria o cadere dalle finestre, perché la loro attività stava ledendo interessi più grandi. Perché attaccare un sistema mondiale dovrebbe essere esente da resistenze?

Il nostro materialismo dialettico positivista servirà a poco se non riusciamo a spogliare il sistema. Bisognerà affrontare poi gli altri prodotti di questo sistema. La destra crescente e l’odio che non ascolterà alcuna idea e che farà inevitabilmente resistenza. Sarà la mano armata delle corporazioni e dello status quo. In un economia dove l’informazione è filtrata dai media asserviti ai grandi inserzionisti pubblicitari, poi, chi difende il diritto di sapere? E quale sarà il prezzo da pagare per fare scelte consapevoli? In alcune parti del mondo non si può nemmeno parlare apertamente di cambiamento climatico.

Il climatologo Micheal Mann è stato vittima di una grande campagna intimidatoria fatta di diffamazioni a mezzo stampa e minacce di morte, dopo aver pubblicato studi approfonditi sul surriscaldamento globale. Sarà necessario istituire strutture sicure di whistleblowing per proseguire l’eredità di progetti come Wikileaks. E instaurare un rapporto strettissimo tra informazione e azione.

Ora che la caduta libera nella quale siamo raggiungerà il massimo della velocità possibile, ci si deve aspettare di tutto. Nel 2001 la previsione era che nel 2025 2/3 delle persone non avrebbero avuto accesso all’acqua potabile.

Quando la Bolivia cercò un finanziamento per i servizi idrici della propria città, la Banca Mondiale pretese che fossero privatizzati, così la Bechtel di San Francisco assunse il controllo di tutta l’acqua, persino di quella che cadeva dal cielo su Cochabamba. I contratti proibivano alla gente di raccogliere l’acqua piovana e le bollette non pagate davano all’azienda il diritto di confiscare le case dei debitori e di metterle all’asta. Le scelte per la popolazione erano quindi: non mandare i figli a scuola o non curarsi per poter bere. La gente scese pacificamente per strada a protestare e la repressione fu violentissima. Nonostante ci fossero quasi intere città in piazza, il governo difendeva gli interessi di una corporazione lontana, chiedendo a famiglie che vivevano con due dollari al giorno, un quarto del loro reddito per l’acqua.

Più aumentava la resistenza popolare, più violento diventava lo scontro. Ci furono centinaia di manifestanti mutilati e Victor Hugo Daza, un manifestante disarmato di appena diciassette anni fu ucciso da un capitano dell’esercito addestrato negli Stati Uniti, vestito da manifestante pure lui, che sparava sulla folla. La vittoria della popolazione costò sei morti, 175 feriti, compresi due bambini accecati dai gas lacrimogeni.

Sembra una prospettiva distopica da volantino di qualche movimento catastrofista. Invece è successo vent’anni fa, a causa della statunitense Bechtell e dell’italianissima Edison (anche se a controllo francese). Per il capitalismo, per le grandi corporazioni post-capitaliste, l’unica strada è riflettersi nelle strutture irregimentate delle dittature fasciste.

Ancora, il fatto che noi siamo in una democrazia è soltanto la misura del loro potere e della nostra debolezza. Ma questo non durerà per sempre, specie se inizierà la lotta per questo cambio di paradigma, per la salvezza del pianeta. Esiste un interessante collegamento tra la nascita del fascismo e la consapevolezza delle persone nei confronti del corporativismo e del capitale. Il biennio rosso che pretendeva riforme umaniste, socialiste, ambientaliste fu combattuto dai grandi finanziamenti e investimenti di latifondisti e corporazioni ai fascismi di tutta Europa.

Stessa cosa proseguì durante la Seconda Guerra Mondiale e negli anni di piombo. Per le grandi aziende la dittatura è spesso un modo per assicurarsi mercati esteri restando con le sedi in posti democratici nei quali poi rivendere i prodotti.

Uno dei generali più decorati del corpo dei marines, Smedley Butler, pacificò il Messico per conto delle compagnie petrolifere americane, Haiti e Cuba per la National City Bank, il Nicaragua per la Brown Brothers, la Repubblica Dominicana per i produttori di zucchero, l’Honduras per le multinazionali della frutta e la Cina per la Standard Oil. Nel 1930 i suoi servizi vennero richiesti dalle corporazioni anche durante il New Deal di Roosevelt per evitare gli aiuti alla popolazione – ma questa volta si tirò indietro smascherando il piano. Gli era stato richiesto di dirigere un’organizzazione già pronta di 500.000 uomini per rovesciare il governo statunitense e instaurare una dittatura anti-socialista.

Durante le indagini, si scoprì che erano coinvolti alcuni rappresentanti delle più grandi multinazionali americane, tra cui JPMorgan, Dupont e Goodyear. Se non accadde più è semplicemente perché non servì.

La stessa cosa si ripeté cinquant’anni dopo in Italia, con il mancato Golpe Borghese. Il fatto che questi piani falliti ci abbiano permesso di scoprire il modus operandi non vuol dire che non abbiano inoltre funzionato centinaia di volte altrove e se han fallito era solo perché è stata trovata una strada meno invadente.

Al giorno d’oggi, essendo le corporazioni globali, i governi hanno perso quasi del tutto il controllo su di loro. Il mercato è il capo, culturale e politico. Un rapporto di inizio 2000 del dipartimento del tesoro USA rivelava che ogni settimana 57 aziende venivano multate per aver fatto affari con terroristi, tiranni e regimi dittatoriali.

Il ritornello per cui sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo oltre a un leitmotiv davvero funzionante, è una profezia che si auto-avvera, nelle narrazioni del futuro non c’è mai la fine del capitalismo. Non esiste alternativa, un altro mondo, ma solo la sua fine. Dall’altra parte una specie di resistenza informe giovanile e irrazionale che sembra andare contro le naturali leggi di mercato. L’obiettivo è mostrare come non ci sia nulla di naturale nella finanziarizzazione e come la nostra battaglia non abbia nulla di irrazionale. Serve ripetere a noi stessi e a tutti coloro che troviamo sulla nostra strada che ora come vent’anni fa, un altro mondo è possibile.

Ci sono crepe e fratture nel sistema, nota Vandana Shiva. È nostro compito sfruttarle subito perché raramente le condizioni ambientali (in senso letterale, questa volta) danno uno slancio tale alla lotta. Come disse Enea ai compagni, forsan et haec olim meminisse iuvabit, forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose.

[…] La fine del mondo sta arrivando, mamma, butta la pasta | Parte Terza […]

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