Storie di Storia / 12. Il furto della storia: la Gioconda trafugata - la Repubblica

2022-09-24 14:57:37 By : Mr. Michael Ma

Il dodicesimo numero di Storie di Storia, la newsletter di Repubblica, è dedicato al furto d’arte più famoso della storia, una vicenda dell’agosto del 1911. Quello che oggi è il ritratto più famoso del mondo, la Gioconda, realizzato da Leonardo da Vinci tra il 1507 e il 1513, fu rubato dal Museo del Louvre di Parigi da un decoratore italiano, Vincenzo Peruggia, con il nobile e folle intento di restituire all’Italia quel capolavoro che pensava ci fosse stato rubato da Napoleone. Il dipinto a olio su tavola di legno di pioppo, conosciuto anche come Monna Lisa, fu recuperato due anni dopo e ritornò al Louvre il 4 gennaio 1914 con una cerimonia in pompa magna. Il furto di Peruggia contribuì alla nascita del mito della Gioconda. 

Parigi, martedì 22 agosto 1911. Museo del Louvre.

Il pittore Louis Béroud conosce bene il Louvre. Si reca spesso al museo parigino dilettandosi nell’eseguire copie. Quel giorno raggiunge il Salon Carré con l’intenzione di fare uno schizzo della Monna Lisa di Leonardo. Lì incontra l’incisore Frédéric Laguillermie, anch’egli venuto a copiare il famoso dipinto italiano. Quando giungono nell’area dove è esposta l’opera si trovano di fronte a un muro. Davanti a loro un grande pannello vuoto con quattro ganci: la Gioconda è scomparsa!

Allertate, le guardie ritengono che il dipinto possa trovarsi nei locali di Braun & C., fotografo ufficiale del Louvre e proprietario di un laboratorio e di una sala vendite all’interno dell’edificio. Non è così, il dipinto è stato rubato. Nel primo pomeriggio il capo della polizia parigina, il signor Hamard, con una sessantina di ispettori, è sulla scena del crimine. Nella piccola scala che conduce alla Corte Visconti, trovano la magnifica cornice rinascimentale italiana del dipinto. Il criminologo Alphonse Bertillon individua un’impronta digitale sul vetro che la proteggeva, la confronta con quelle dei 257 dipendenti del Louvre prese poco prima. Nessuna corrispondenza. Il ladro non viene identificato e il direttore del Louvre, Théophile Homolle, è costretto a dimettersi.

La notizia del furto si diffonde sulla stampa internazionale. 

Sono fatte le più assurde speculazioni sul trafugamento e prese in considerazione tutte le piste possibili. C’è chi parla di un complotto ebraico, chi di una spia del Kaiser Guglielmo II. Il giudice istruttore incaricato del caso, Joseph-Marie Drioux – soprannominato dalla stampa il “marito della Gioconda” – arriva persino ad arrestare e incarcerare per alcuni giorni il poeta Guillaume Apollinaire a La Santé. Il suo ex segretario, il belga Guy Piéret, aveva rubato tre statue dal Louvre nel 1907 e nel 1911 e ne aveva appena inviata una al quotidiano Paris Journal, prima di affermare di aver rubato la Gioconda chiedendo un riscatto di 150.000 franchi. Anche Picasso è sospettato di complicità per aver acquistato tempo prima da lui due statuette ed è interrogato a lungo. Questi sospetti non saranno confermati ma, suscitando l’indignazione dell’ambiente intellettuale parigino, portano il caso all’attenzione generale. 

Il museo si affolla di curiosi accalcati di fronte alla parete desolatamente vuota. La Société des amis du Louvre offre una ricompensa di 25.000 franchi per la restituzione del dipinto, mentre la rivista L’Illustration offre 40.000 franchi a chiunque porti l’opera in redazione. Le offerte sono allettanti ma vane: la Gioconda è ancora dispersa e l’opinione pubblica comincia a rassegnarsi alla perdita di un capolavoro che si presume possa essere già lontano dalla Francia.

La Monna Lisa era invece nascosta da due anni in un decadente appartamento di Parigi in rue de l’Hôpital Saint-Louis, nel 10° arrondissement. Il ladro? Un decoratore italiano, Vincenzo Pietro Peruggia, che aveva lavorato al Louvre, lo conservava sotto vetro. Conoscendo il luogo, il 21 agosto 1911, approfittando della chiusura del museo lo aveva rubato togliendo la Gioconda dalla cornice per poi fuggire da una porta secondaria forzandola con un coltellino. Nascondendo il quadro sotto il cappotto, Peruggia era riuscito a tornare a casa senza essere visto. Interrogato insieme ad altri dipendenti, aveva fornito alla polizia un alibi ritenuto attendibile. 

Due anni dopo però l’italiano si tradisce. Gli capita di sfogliare un giornale italiano ed è colpito da un annuncio pubblicato nelle pagine pubblicitarie:

“DESIDERANDO organizzare una mostra d'arte, sono disposto ad acquistare a buone condizioni oggetti d’arte di qualsiasi tipo”. GERI ALFRED, industriale, Firenze.

Pensa allora di vendere la Monna Lisa che custodisce in una scatola di legno bianca con un doppio fondo, coperta da vestiti e stracci. Gli serve un’identità di copertura. Utilizza il nome di Léonard Henri, si spaccia per pittore e così risponde all’annuncio dell’antiquario fiorentino: «L’opera di Leonardo da Vinci è in mio possesso. Credo spetti all’Italia appropriarsi di quest’opera, visto che il suo autore è italiano. Restituire questo capolavoro alla terra da cui proviene, ai luoghi che lo hanno ispirato, questo è il mio sogno!». Il signor Geri pensa di avere a che fare con un pazzo e decide di parlarne con il Comandante Poggi, direttore della Galleria degli Uffizi di Firenze. Poggi è incredulo. Decidono comunque di rispondere provando ad attirare il misterioso Léonard a Firenze e di convincerlo a portare con lui il dipinto. Il signor Geri risponde all’indirizzo indicato, scrivendo di essere disposto ad acquistare la Gioconda, ma a condizione di visionare prima il dipinto per accertarne l’originalità. Vincenzo Peruggia, sotto falso nome, invita il signor Geri a recarsi a Parigi. L’antiquario ribatte proponendo Milano come luogo di incontro, perché impossibilitato a raggiungere la capitale francese. Peruggia accetta: «Sarò a Milano il 17 dicembre 1913». Geri risponde che questa data non gli va bene e suggerisce il giorno 20. Peruggia conferma. Qui si conclude la corrispondenza tra i due. Il giorno stabilito, un mercoledì sera, il signor Geri vede entrare nel suo negozio un giovane dall’aspetto piuttosto comune, dai capelli scuri, di bassa statura. «Sono Léonard Henri…». È vestito in modo ordinato, ma senza eleganza. Il signor Geri nota il suo labbro superiore prominente, ornato da piccoli baffi neri. 

Perrugia: «L’ho con me».  Geri: «Ma è davvero la Monna Lisa?»  Perrugia: «Ve lo garantisco». E mentre dice ciò, mette una mano sul cuore come per fare un giuramento. «Vedrete…» Geri: «Dove si trova?»  Perrugia: «È al sicuro. L’ho portato in Italia e l’ho nascosto così bene che è sfuggito alla dogana. Il dipinto è ancora nascosto sul fondo di una scatola…Sono italiano e sono molto felice di restituire a Firenze il capolavoro di Leonardo».  Geri: «Ma dove alloggia?» Perrugia: «Sono all’Hotel de Tripolitaine».  Geri: «Ci vediamo domani, giovedì, all'Hotel. Verrò con il Direttore Poggi». Perrugia: «Va bene, parlate con il direttore e fissate il prezzo che mi pagherà per il quadro». 

Il giovedì pomeriggio, il signor Geri e il comandante Poggi si recano in albergo. Il ladro era lì, in una stanza al secondo piano, in loro attesa. Era stato registrato nei registri alberghieri con lo stesso nome con cui si era firmato nella corrispondenza: Léonard Henri, pittore, provenienza Parigi. Insieme disimballano la Monna Lisa. Léonard solleva il fondo della scatola, dove è sistemato il dipinto, protetto per non essere danneggiato durante il viaggio. Immediatamente l’antiquario e il direttore degli Uffizi hanno l’impressione di aver davanti agli occhi il vero dipinto di Leonardo da Vinci. Provano una forte emozione e Léonard lì guarda sorridendo compiaciuto. È felice, come se avesse in mano una sua opera. Girando il dipinto, il ladro toglie ai due ogni dubbio: «Guardate, qui c’è il sigillo del Museo del Louvre e il suo numero». Si trattava di un’ulteriore prova di autenticità. Il signor Poggi desidera entrarne in possesso e, con l’aiuto di Geri, riesce a convincere Peruggia ad affidargli il tesoro. Intendeva mostrarlo a M. Corrado Ricci, Direttore delle Belle Arti di Roma, che sarebbe arrivato il giorno successivo. Al ladro viene promessa una piccola fortuna a patto che il dipinto sia effettivamente autentico. Léonard si lascia convincere. Prende la Gioconda e la avvolge in un lenzuolo rosso. I tre salgono su una carrozza e si recano alla Galleria degli Uffizi. Al museo Peruggia, che ha il quadro sotto il braccio, accetta di lasciarlo in deposito. Poggi aveva già telegrafato a Corrado Ricci a Roma che ricevuto il dispaccio si era precipitato a Firenze. Poco dopo, non appena visto il dipinto, ne conferma l’ autenticità. Un questore di polizia si reca all’Hotel de Tripolitaine e procede all’arresto di Vincenzo Peruggia. Il ladro, che stava preparando la valigia pronto a partire, non oppone resistenza. Sembra sorpreso che un furto commesso in Francia e compiuto per quello che considera uno scopo patriottico possa essere punito in Italia. Queste le sue dichiarazioni alla Polizia riportate dal quotidiano francese Le Figarò: «Se l'opera di Leonardo da Vinci viene riconquistata dall’Italia, lo si deve a Vincenzo Peruggia, figlio di Giacomo, ventiduenne, nato a Domenza, in provincia di Como, da tempo all’estero e in particolare in Francia, dove sono stato per diversi anni in tempi diversi. Sono un decoratore, cioè, in una certa misura, anche un artista. E ho visto la Francia ricca di molte opere del nostro genio. In qualità di decoratore, sono stato assegnato con altri lavoratori francesi al Museo del Louvre. Mi sono spesso fermato davanti al quadro di Leonardo da Vinci, in cui è così viva l’espressione della nostra arte, della bella arte italiana, che nessuno riuscirà mai a superare. Ero anche umiliato nel vedere quest’opera come un oggetto di conquista in terra straniera e mortificato nel vederla considerata come una gloria francese. Non sono rimasto a lungo legato al Louvre, ma ho comunque mantenuto i contatti con i miei ex compagni di lavoro, che ho continuato a visitare quando andavo al museo, dove ero molto conosciuto. Ho pensato che sarebbe stata una grande azione restituire il grande capolavoro all’Italia. È stato allora che ho concepito l’idea del furto. In realtà non sarebbe molto difficile entrare in possesso del dipinto, dato che la sorveglianza non è molto rigida nei confronti di chi lavora nel museo. Dovevo solo scegliere il momento giusto, quando la stanza era vuota. Ero perfettamente consapevole del modo in cui il quadro era fissato alla parete. Per staccarlo è bastato un semplice gesto. Solo il telaio era ingombrante, ma è stato facile sbarazzarsene. La tavola dipinta dal grande italiano, libera dalla cornice, non poteva che essere leggera per un italiano. A poco a poco, questa idea ha preso forma nella mia mente e sembrava facile da realizzare. Alla fine ho deciso di metterla in pratica. Una mattina andai a trovare i miei amici decoratori, che lavoravano ancora al Louvre, e scambiai con loro qualche parola nella massima calma. Approfittai di un momento di distrazione per allontanarmi da loro ed entrai nella stanza dove si trovava la Gioconda. La stanza era deserta e la Gioconda mi sorrideva. Ero ormai deciso a rubarla. In un attimo ho tolto il quadro dalla parete. Ho rimosso il telaio e sono andato subito sotto una scala che conoscevo e l’ho riposto lì. Ripeto, mi ci sono voluti solo pochi istanti per mettere in atto il mio furto. Pochi minuti dopo sono tornato nella stanza della Gioconda. Poi presi il quadro e lo nascosi sotto il camice, andando via senza destare alcun sospetto. In effetti, nessuno mi aveva visto. Nessuno ha mai sospettato di me. Quante ricerche sono state fatte! Quante cose sono state dette e stampate; quante ipotesi sono state avanzate sul probabile ladro e sui motivi che avrebbero potuto spingerlo a compiere il suo gesto! Si ipotizzò addirittura che potesse essere stato un vandalo che, per un brutale istinto di distruzione, avesse rubato il capolavoro per farlo sparire. Ma nessuno ha mai pensato all’ipotesi più semplice, cioè che il furto possa essere stato commesso da un povero diavolo come me, che certamente vorrebbe guadagnarci, ma che tuttavia ha un grande rispetto per l’opera immortale. Ho tenuto il quadro a casa per due anni e mezzo, come una cosa sacra. Non osavo toglierlo dal suo nascondiglio, temendo sempre di essere arrestato. Tutte le idee che mi sono venute in mente per approfittarne sono state scartate una ad una perché troppo pericolose. Dopo tanto rumore, dopo tanti sforzi della polizia per scoprire il ladro, calò il silenzio e nessuno parlò più di Monna Lisa. L’oblio in cui sono caduti il furto e l’opera stessa mi ha spinto ad agire. Fu allora che pensai di riportare alla luce il capolavoro del pittore italiano, non solo per trarne profitto, ma anche per dare al mondo civile e artistico la gioia di ammirare il dipinto illustrato, e pensai naturalmente alla mia patria». 

Una monografia dedicata a Leonardo da Vinci e alla sua Gioconda trova spazio nella collana “Dossier d’art” di Giunti, scritta da Pietro Marani, Presidente dell’Ente Raccolta Vinciana di Milano e membro della Commissione Nazionale Vinciana. Docente di Storia dell’arte moderna, Storia dell’arte contemporanea e Museologia nel Politecnico di Milano. Leonardo. La Gioconda. Ediz. illustrata è una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia, di cui Storie di Storia, per gentile concessione dell’editore, ne pubblica una parte.

Di  Pietro C. Marani

Il dipinto custodito nel museo del Louvre a Parigi sotto il numero d’inventario 779 (M.R. 316), universalmente noto come la Gioconda, è una delle quattro o cinque opere esistenti al mondo la cui attribuzione a Leonardo da Vinci non è mai stata contestata. Le altre sono l’Adorazione dei magi conservata agli Uffizi di Firenze, il San Girolamo dei Musei vaticani, la Vergine delle rocce del Louvre e il Cenacolo dipinto nel refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, anche se in quest’ultima opera, recentemente, si è voluto vedere operante, forse con un eccesso di acribia filologica, qualche allievo del maestro. Si tratta di un’opera di 77 x 53 cm di grandezza, dipinta su un’unica tavola di legno di pioppo tenero, con tutta evidenza di origine italiana, che potrebbe essere stata rifilata sui due bordi laterali di circa 0,7 cm per parte (ma questa diminuzione non è sicura). È l’unico ritratto della maturità di Leonardo eseguito su legno di pioppo (ma non l’unico dipinto: la Sant’Anna del Louvre è infatti, anch’essa, dipinta su pioppo italiano), dato che sia il Ritratto di musico della Pinacoteca Ambrosiana a Milano che il ritratto di Dama con l’ermellino del Museo Czartoryski di Cracovia che, infine, la Belle Ferronnière del Louvre, sono stati tutti eseguiti su legno di noce. È singolare che, nella Gioconda, Leonardo abbia abbandonato l’uso di questo legno (che egli stesso aveva consigliato di usare in una ricetta contenuta nel Ms. A dell’Institut de France, f. 1r, circa 1490-1492, dove raccomanda l’uso del noce insieme con «l’arcipresso, o pero o sorbo»), benché in alcune opere giovanili (come la piccola Annunciazione del Louvre, o l’Annunciazione degli Uffizi) egli avesse già fatto uso del comune pioppo. Il dipinto del Louvre è in perfette condizioni di conservazione, salvo considerare una leggera fenditura nella parte superiore sinistra del pannello cui corrisponde, al verso, la messa in opera, durante un antico intervento di restauro, di due farfalle di legno e di una striscia di tela a scopo precauzionale, così come per precauzione la tavola originale è stata inserita in una cassetta di legno nella quale il pannello è tenuto grazie a quattro traverse moderne di legno (ma si veda in “Documenti e testimonianze” per altre caratteristiche presentate dal rovescio della tavola si rimanda al capitolo “Significati, simboli, fortuna”). La pittura potrebbe aver subito anticamente qualche intervento di restauro, come sembra evincersi dal resoconto di Cassiano del Pozzo del 1625, che potrebbe aver causato anche la perdita di alcuni dettagli, come le ciglia, ma lo stato attuale, ottimo, non permette di confermare questa ipotesi (un piccolo irrilevante danno verso il basso, al centro, fu invece causato da un atto vandalico). 

Leonardo ha preparato la tavola con un fine strato di gesso duro, dalla cui crettatura dipende il craquelé regolare della pittura. Sopra questa preparazione ha steso un colore di base differenziato: blu sotto la parte superiore del paesaggio, rosso sotto la sua parte inferiore (Hours 1954). Il colore rosso steso sulla preparazione bianca sembra costituire una costante dei dipinti di Leonardo (si ritrova sotto lo sfondo del Musico della Pinacoteca Ambrosiana, sotto alla Belle Ferronnière, e la Sant’Anna del Louvre) e dei suoi allievi (come sotto al Ritratto di giovane, attribuito al De’ Predis, nella Pinacoteca di Brera) e una stesura di ocra e minio mista a biacca è raccomandata dallo stesso Leonardo come base delle pitture su tela (Marani 1998). Le vernici protettive hanno infine prodotto altri tipi di crettature: sulla guancia sinistra, in ombra, il craquelé è minutissimo, mentre sulle parti illuminate del volto è assai più largo. La pittura, a olio, è stesa per strati successivi di velature. È stato suggerito (Hours 1954) che Leonardo possa aver rifinito con lacche rosse alcuni tratti del volto, che appare oggi assai più luminoso e chiaro rispetto alle mani, dove sembra di poter scorgere l’uso più abbondante di terre (ocra rossa e ocra gialla), nonostante l’ingiallimento e l’ossidazione delle vernici che rendono più giallastro il tono degli incarnati e più verdastro il paesaggio. Ma la luminosità del volto, quasi iridescente, deve imputarsi ai sottostanti strati di biacca che fanno riflettere la luce, perforando gli strati sottilissimi di colore, in una continuità di tecnica che si riscontra fin dai tempi del Cenacolo, dove il recente restauro (Brambilla, Marani 1999) ha evidenziato la presenza di ben due strati di preparazione, il primo di carbonato di calcio, il secondo, appunto, di biacca. 

Dal Cenacolo alla Gioconda: due miti a confronto

Del resto, pochissimi anni separano l’esecuzione del Cenacolo da quella della Gioconda: completato il primo entro il febbraio del 1498, iniziata la seconda entro il 1503. Col Cenacolo, la Gioconda condivide anche il primato di essere una delle due più celebri pitture di Leonardo, ma, mentre la Gioconda è famosa “soltanto” da poco meno di centocinquant’anni, il Cenacolo lo è da molto più tempo, da più di cinque secoli. La fama del Cenacolo era infatti iniziata subito dopo il suo compimento, il 9 febbraio del 1498, quando Luca Pacioli, dicendolo appena finito, lo definisce, nella sua De divina proportione dedicata a Ludovico Sforza, un’opera di tale bellezza di fronte alla quale Apelle, Mirone e Policleto «conv[i]en che cedino». Dal Félibien a Poussin, a Montesquieu (che, nel 1728, lo aveva definito «uno dei più bei quadri del mondo»), da Goethe a Stendhal, da Ruskin, che lo paragona alle opere di Rembrandt, a Henry James, a Eugène Müntz, che definì il Cenacolo un «miracolo» (1899), è la pittura murale milanese a occupare, per oltre quattro secoli, nell’immaginario collettivo, il posto di opera-chiave, o di opera-simbolo, nell’attività di Leonardo. La Gioconda invece, salvo considerare l’apprezzamento del Vasari (che forse la descrive in base a un resoconto d’altri) e di pochi eletti che ebbero il privilegio di vederla (non la vide il Lomazzo, non la vide forse nemmeno lo stesso Félibien, che pur la descrive, nel 1666, parafrasando il Vasari), come Cassiano del Pozzo e padre Dan (che sempre nel Seicento la definisce «una meraviglia della pittura»), non desta particolari entusiasmi fino alla metà dell’Ottocento. Il motivo è da vedersi nel fatto che essa fu dapprima esposta per lungo tempo negli appartamenti reali a Fontainebleau, poi nella Petite Galerie du Roi a Versailles, dove è registrata nel 1695, quindi nella stanza da letto di Napoleone, prima di essere visibile da parte di un pubblico più vasto al Louvre. Nel nuovo museo sorto dalla Rivoluzione, la Gioconda entrò una prima volta nel 1797, insieme con i tesori provenienti da Versailles, per esservi esposta, nel Salon Carré, nel 1798 senza destare un’impressione particolare nel pubblico (Haskell 2000), ma Napoleone la volle poi per sé e la fece trasferire nel 1801 nella camera da letto di Joséphine alle Tuileries. Quando Napoleone venne incoronato imperatore, nel 1804, il dipinto ritornò al Louvre dove iniziò ad attirare l’attenzione dei critici e del pubblico francese.

Come è stato dimostrato recentemente (Migliore 1994; Sassoon 2002), la fortuna del dipinto si consolida solo attorno alla metà del XIX secolo a opera, soprattutto, di Théophile Gautier, di Arsène Houssaye, di Charles Baudelaire a Parigi e poi di Walter Pater a Londra. Soprattutto la lettura del dipinto leonardesco offerta da Théophile Gautier, che combinò magistralmente le qualità di bellezza, grazia e mistero suggerite dalla Gioconda con il culto dell’eterno femminino e della superiorità della donna, teorizzato anche da Goethe nel Faust (1831), e, particolarmente, con il mito della femme fatale, poi superbamente esplorato nell’universo figurativo di Gustave Moreau, si rivelò gravida di conseguenze per l’apprezzamento futuro del dipinto. Nel 1852 Gautier, nella poesia Caerulioculi, aveva messo a punto il “ritratto” di una femme fatale descrivendo così la Gioconda: «Une femme mystérieuse / Dont la beauté trouble mes sens, / Se tient debout, silencieuse, / Au bord des flots retentissants» (“Una donna misteriosa / la cui bellezza turba i miei sensi / sta in piedi, silenziosa / accanto a flutti risonanti”). Come è stato notato da Sassoon, Gautier «vedeva ovunque immagini di donne misteriose e conturbanti», ed era parimenti ossessionato dalla Gioconda di Leonardo se, di fronte a un dipinto di El Greco (forse raffigurante la sua amante, Jerónima de las Cuevas), descritto nel 1850, aveva detto del suo sguardo: «Ti segue ovunque, come la Gioconda di Leonardo». La Gioconda, per Gautier, diventava così l’incarnazione di un ideale femminile in cui il personaggio storico di Lisa Gherardini scompariva per lasciare il posto, sotto il peso di fantasie maschili, a un insieme di immagini misteriose, voluttuose, forse immorali. Nel contempo, gli studiosi romantici stavano affrontando il tema di Leonardo uomo “universale” e stava nascendo il “mito” di Leonardo: un uomo dotato di conoscenze e di poteri quasi sovrannaturali, metà artista, metà mago, che il simbolismo europeo avrebbe poi fatto divenire “superuomo”, compiendone una lettura antistorica e decontestualizzandone l’opera. Intanto Corot parafrasava la Gioconda nella sua Fanciulla con la perla del 1869.

Il furto della Gioconda e la “giocondoclastia” 

Divenuta nell’Ottocento icona dell’ideale femminile, simbolo della bellezza assoluta e dell’immortalità, la Gioconda, come già il Cenacolo, non poteva che diventare, nel secolo successivo, oggetto di scherno e di derisione feroce. Il furto del dipinto, nell’agosto del 1911, con titoli sulle prime pagine di tutti i quotidiani, e la sua assenza dal Louvre per due anni, non fecero che accrescere la sua fama, fino ad allora rimasta confinata nell’ambito dei circoli letterari e artistici. Il senso di nausea che dovette provocare il continuo apparire della sua immagine su tutti i quotidiani e i settimanali del tempo è misurabile nello scritto di Roberto Longhi, intitolato Le due Lise, apparso sulla rivista futurista La Voce nel 1914, dove, demolita l’importanza della Gioconda come risultato delle conoscenze artistiche e scientifiche di Leonardo, il famoso critico italiano viene a preferire una ben più fresca immagine femminile, fatta di sola pittura, quella offerta da un dipinto di Renoir, in sintonia con le rivendicazioni futuriste che si identificavano nell’arte moderna negando valore a quella del passato, giudicata retriva e reazionaria. E così Bernard Berenson provò addirittura, col furto del dipinto, un senso di liberazione e di emancipazione (1916). La Gioconda diviene da quel momento un’«illustre incompresa» per molta parte della critica, tanto che con questa definizione è intitolato ancora un recente libretto di André Chastel a essa interamente dedicato. Ma non è qui possibile illustrare l’infinita casistica degli oltraggi subiti dal dipinto di Leonardo durante il Novecento, dalla riappropriazione da parte di Duchamp, a Dalí, dal teatro alla fotografia, dalla musica al consumismo odierno che, sulla falsariga dei multipli di Warhol ripropone una “Gioconda” su buste di plastica, serializzata e ridipinta come una Marilyn, nel tentativo di riaggiornarne l’immagine e seguendo inconsapevolmente la linea interpretativa che era già stata di Théophile Gautier. E sulla componente romantica e “avventurosa” del dipinto fa leva, ancora oggi, l’ultima di una serie veramente cospicua di monografie interamente dedicate alla Gioconda, quella del citato Sassoon. Anche tutto questo ha poco a che fare con il dipinto in sé, anche se contribuisce a reimmettere via via nella storia del gusto e dell’arte l’immagine violentata e a volte falsata della Gioconda che diviene, a sua volta, nel migliore dei casi un’altra opera d’arte o, nel peggiore, un oggetto di consumo, eventualmente da gettare. Tutto questo può interessare lo storico del costume, ma qui crediamo più utile tornare a guardare al dipinto non solo come a un’opera del suo tempo e considerarla un documento che riflette lo spirito, le conoscenze e le intenzioni del suo autore ma, soprattutto, come al ritratto di un personaggio esistito realmente che si è trasformato nella mente e sotto le mani di Leonardo in un’opera d’arte dove il dato reale si è sublimato, col tempo e la lunga elaborazione cui fu sottoposto, in ritratto idealizzato o, meglio ancora, in un’immagine ideale. © Giunti Editore, Firenze

Massimo Picozzi è medico chirurgo, psicoterapeuta, specializzato in psichiatria, criminologia clinica, psichiatria forense e sessuologia clinica. Scrittore, divulgatore e personaggio televisivo, è Faculty Fellow in SDA Bocconi School of Management e Docente del Corso Executive “Negoziazione e Influenza” e dell’Online Program “Emozioni al Lavoro”. Ha all’attivo numerose collaborazioni con l’Arma dei Carabinieri, la Polizia di Stato e gli ordini professionali di Medici e Infermieri, realizzando progetti dedicati alle più efficaci tecniche di negoziazione e al riconoscimento dei segnali di potenziale pericolo. Su mandato di procure e tribunali, da anni si occupa della valutazione di situazioni estreme di aggressività e violenza. È in libreria con Nero come il sangue, il suo ultimo saggio scritto per Solferino con Carlo Lucarelli. Ha risposto alle domande di Storie di Storia.

I furti d’arte si sono moltiplicati negli ultimi decenni? «Che si tratti di quadri, sculture o antichi manoscritti, si tratta sempre di delitti su commissione. Il critico d’arte Robert Hughes, sulle pagine del Time, attaccava già alla fine degli anni ’70 il nuovo boom per le opere d’arte, definendolo tanto incomprensibile quanto l’irrazionale mania per i tulipani d’Olanda nel diciassettesimo secolo. Una ricerca della Rand Corporation asseriva come i collezionisti, spinti dal miraggio di buoni affari, avessero di fatto estromesso dal mercato fondazioni, musei e pure ogni altro appassionato. I quadri sono oggi sempre meno stimati per il loro valore artistico, ma piuttosto per il prezzo battuto all’asta. Ad esempio ben pochi conoscono “Il ragazzo con pipa”, di Pablo Ricasso, dipinto nel suo “periodo rosa”, prima che nel 2004 un anonimo acquirente ne entri in possesso per la modica cifra di 104 milioni di sterline, quasi 125 milioni di euro. A riempire le pagine dei giornali e i servizi televisivi sono ormai solo gli exploit da guinness dei primati, il quadro, oppure la scultura, più pagati della storia. Inevitabile che la cosa susciti il più vivo interesse nel mondo del crimine, sempre attento al miglior bilancio tra rischio e guadagno».

Chi c'è dietro questi delitti? «Secondo alcuni il collezionismo clandestino, quello di ricchi fanatici, ossessionati dall’arte, che finirebbero per godersi le opere trafugate, magari per pochi minuti al giorno, nel caveau sotto casa dove le hanno nascoste. Non è escluso che possa capitare, ma in realtà la maggior parte dei colpi viene organizzata per chiedere un riscatto, come capita con i sequestri di persona. Per l’Interpol i furti d’arte costituiscono poi uno dei più grandi bacini di riciclaggio di valuta nel mondo, superati, quanto a profitti, solo dal traffico di sostanze stupefacenti». 

Nel nostro Paese il furto della “Natività con i santi Francesco e Lorenzo”, dipinta dal Caravaggio nel 1609, e sottratta all'Oratorio di San Lorenzo a Palermo nell’ottobre del 1969 resta tuttora un crimine senza soluzione?   «Sì...lo ritengo il furto più doloroso e grave messo a segno in Italia. Una tela imponente di tre metri per due, che non è mai stata più ritrovata. C’è molto di misterioso sulla sparizione del dipinto, rubato da due giovani in una notte di pioggia. Si racconta che sulle tracce dei ladri non si mettono solo carabinieri e polizia, ma anche la mafia che, scontato dirlo, arriva per prima e si impossessa dell’opera. Da qui in avanti solo illazioni. C’è chi parla di un contatto tra i boss e il parroco di San Lorenzo, con un offerta di riscatto mai andata a buon fine. Un corriere della droga, pentito, nel 1996 rivela di avere aiutato i ladri ad allontanarsi con la tela, e di averli poi accompagnati dal collezionista che aveva commissionato il furto. Ma l’opera, ritagliata dalla cornice con un rasoio, era talmente danneggiata che il mandante aveva rifiutato di acquistarla. L’ultima, incredibile ipotesi, è che la tela sia ancora in possesso di Cosa Nostra, e che sia esposta durante gli incontri al vertice, a testimonianza del potere dell’organizzazione».

Immagina una soluzione ai furti d’arte? «Che a gestire questo mercato ci siano esaltati, ricattatori o esperti in riciclaggio del crimine organizzato, l’unica soluzione di contrasto sta a mio avviso nella creazione di un database dei capolavori rubati, un archivio computerizzato a cui ogni mercante d’arte, istituzione o museo dovrebbe attingere prima di acquistare qualunque pezzo. Questo permetterebbe non solo di riconoscere e recuperare le opere trafugate, ma aiuterebbe il lavoro di intelligence, ricostruendo la rete di compratori e venditori che sta dietro ai furti». 

Che vicenda è quella del trafugamento della Gioconda di cui si occupa Storie di Storia?  «Una storia in cui non c’entrano niente i collezionisti, i ricattatori e il crimine organizzato, dove il movente non è la passione maniacale oppure il profitto... ».

Qual è il movente di Vincenzo Peruggia nel furto della Monna Lisa? «È interessante a questo proposito il racconto delle motivazioni che hanno condotto il Peruggia a diventare un criminale. Tocca al professore Paolo Amaldi visitare il ladro, capire qualcosa della sua mente e delle sue intenzioni. Aveva vinto un concorso internazionale per la fondazione del primo ospedale psichiatrico della Svizzera Italiana a Mendrisio, che aveva diretto fino al 1907 prima di tornare in Italia, a Firenze, dove gli era stata affidata la direzione dell’Ospedale psichiatrico provinciale. Prende l’incarico di occuparsi del caso Peruggia il 27 marzo del 1914. Esamina gli atti, i verbali, le testimonianze. E poi incontra l’imputato, che sta in carcere e gli si presenta come un uomo di 33 anni, poco più alto di un metro e sessanta, esile nello scheletro e povero nella muscolatura. Da lui raccoglie informazioni sulla famiglia, sulle malattie che ha sofferto, su qualche vizio o abitudine sconveniente. Ne esce poco. Certo Peruggia parla di uno zio disgraziato, che beveva troppo e aveva ucciso un uomo, fatto per cui l’avevano condannato al carcere a vita. Ma è un fatto isolato, e il resto della famiglia è composto da gente perbene. Quanto a cattive inclinazioni, qualche volta s’era ubriacato, ma non si poteva certo dire un alcolista. Gracile di costituzione, gli era poi capitato di ammalarsi quando era già in Francia, colpito da saturnismo, un disturbo legato all’intossicazione da piombo, metallo contenuto nelle vernici che al tempo ogni imbianchino usava. Il professore Paolo Amaldi accerta che dalla ditta del signor Gobier, Peruggia era stato mandato al Louvre in compagnia di altri operai, con l’incarico di pulire quadri e ricoprirli con cristalli. Mentre lavorava nelle sale del museo, gli capitava di sentire molti visitatori commentare su quante opere esposte arrivassero dall’Italia. Aveva certo notato anche la Gioconda, ma tra le incombenze a lui impartite non c’era quella di occuparsene. Il Peruggia disse ad Amaldi di ricordare che un giorno sfogliando le pagine di un libro, fu colpito da una figura dove si vedeva la facciata del Louvre con sopra una stella, e, sotto, una fila di carri trainati da buoi e carichi di quadri, di statue, di capitelli, che venivano dall’Italia. Nella spiegazione che c’era sotto si diceva che era tutta roba presa in Italia da Napoleone I. Non riuscì a continuare a guardare quel libro, sentendosi male... Fu allora che pensò: se potessi riportarne almeno uno di quei quadri in Italia! In quel momento non ricordava di aver pensato alla Gioconda, era indifferente o l’uno o l’altro di quei quadri. Importante fu quell’idea: restituire all’Italia per vendetta uno dei quadri rubati».

Come mette in pratica il furto? «Erano le sette e cinque, al massimo le sette e dieci del lunedì mattina, quando è entrato nel Louvre passando dalla porta Jean Goujou, quella più usata dagli operai. Poi ha attraversato la sala del maneggio, a pianterreno e si è diretto al salone Carrè. Non ha incontrato nessun operaio sulla strada, nessun custode. Staccato il quadro dalla parete, è andato dritto verso la scaletta della sala dei sette maitres e in pochi istanti ha liberato la tavola dalla cornice e dal vetro che la racchiudevano. Ma non poteva uscire così all’aperto, e allora, semplicemente, s’era sfilata la giacca che indossava, e l’aveva avvolta attorno al quadro, una volta fuori dal museo, era saltato sul primo autobus, ma nell’agitazione del momento, si era accorto che stava andando dalla parte sbagliata, e così era sceso e fermato una vettura che l’aveva riportato a casa. Lì aveva nascosto alla meglio la Gioconda, e poi, di corsa, era tornato al lavoro. Per giustificare il ritardo, visto che tra una cosa e l’altra s’erano fatte le nove, aveva raccontato di soffrire dei postumi di una sbornia presa il giorno prima, che poi era domenica».

Il Peruggia è sottoposto anche a perizia psichiatrica? «Sì e come si fa in ogni perizia psichiatrica, raccolta l’anamnesi, sentito il racconto dei fatti dalla voce del detenuto, a Paolo Amaldi tocca l’esame psichico, la valutazione di tutti i segni delle funzioni della mente. Il professore è colpito dalla calma imperturbabile di Vincenzo Peruggia, il tono sommesso, la mimica del volto che si muove assai poco. Anche nei momenti più intensi del suo racconto, non c’è grande emotività che accompagna le parole. Allora decide di praticare qualche semplice test mentale, di quelli che oggi sorprendono un po’, e nella relazione che consegna al giudice, a un certo punto scrive: “Ho cimentato il suo spirito critico con qualche pseudo-quesito ingannevole, ma l’insuccesso era costante. Per esempio: - Se 24 passeri stanno posati su di un albero, e con una schioppettata se ne buttano giù 18, quanti ne rimangono posati? Risponde (dopo aver ingenuamente calcolato): “sei” Se un uovo deve bollire 4 minuti, quanto devono bollire 3 uova? Risponde: “dodici minuti” senza accorgersi, come senza deridersi.” Per lo psichiatra è sufficiente per affermare come “il Peruggia che, dotato di un buon potere mnemonico, disporrebbe di un sufficiente complesso di nozioni, rivela invece un limitato potere formativo, una povera dinamica intellettuale associativa, soprattutto una scarsissima attitudine critica”. E sulla base di tutto ciò che ha raccolto, alla fine il professor Amaldi conclude che l’imputato era, ed è, affetto da un vizio parziale di mente, che tuttavia non lo rende pericoloso per sé e per la società».

Cosa avviene in seguito? «Il 5 giugno del 1914, davanti al Tribunale Penale di Firenze, 2^ Sezione, composta dal Presidente Giovanni Barili e dai giudici Riccardo Floriani e Carlo Savini, l’imputato Vincenzo Peruggia viene condannato ad anni uno e giorni quindici di reclusione per furto aggravato. Il fatto è che la pena sembra a tutti eccessiva, perché il pubblico che ha riempito l’aula del processo, ma pure molti tra gli addetti ai lavori, hanno creduto alle parole dell’imbianchino di Demenza, alle ragioni patriottiche che hanno motivato il suo gesto. E allora si va in appello, il 29 luglio, e in quella sede non solo la pena diminuisce a mesi sette e giorni otto, ma la corte stabilisce che il Peruggia sia immediatamente scarcerato. Fuori di prigione, ad aspettarlo, non ci sono solo i familiari e gli amici, ma un gruppo di comuni cittadini, che ha organizzato una colletta e raccolto una somma per l’emigrante, simbolica ma comunque significativa».

Qualche anno fa il quotidiano francese Le Monde scriveva che i visitatori del Louvre “hanno 35.000 opere a disposizione nel museo, ma la stragrande maggioranza ha occhi soltanto per ‘Monna Lisa’”. Queste le cifre del Louvre: 10,2 milioni di ingressi all’anno, 30.000 visitatori al giorno. Cifre spaventose che rischiano “di mettere in pericolo” il museo, creato “per ricevere fra 3 e 5 milioni di visitatori mentre ne ospita il doppio”. Per Le Monde, la “soluzione radicale” sarebbe quella di “dare alla Gioconda uno spazio autonomo, con un ingresso separato”. Per il New York Times sarebbe addirittura “arrivato il momento di rimuovere la Gioconda dal Louvre”. Il dipinto più famoso del mondo, la Gioconda, ha bisogno dunque di uno spazio abbastanza grande per accogliere i suoi numerosi ammiratori. Ed è per questo motivo che è ospitato nella sala più grande del Louvre, la Salle des États, che ospita anche altri notevoli dipinti veneziani come Le nozze di Cana del Veronese. Una superstar merita una cornice adeguata, ecco perché, nel 1966, il Louvre scelse di esporre il capolavoro di Leonardo nella Salle des États, la più grande del palazzo. 

Il famoso sorriso enigmatico di Monna Lisa ha affascinato gli spettatori per secoli. Tra i suoi primi ammiratori c’era il re Francesco I, che invitò Leonardo da Vinci in Francia e acquistò il dipinto da lui nel 1518. È così che il dipinto più famoso del mondo è entrato a far parte delle collezioni reali che sono state esposte al Louvre a partire dalla Rivoluzione francese.

Dal 2005, la Gioconda è esposta in una teca di vetro protettiva, in uno splendore solitario al centro della sala. Questo trattamento speciale deriva in parte dalla necessità di garantire la sicurezza di un’opera così famosa, ma è anche dovuto a esigenze di conservazione: l’opera non è stata dipinta su tela, ma su un pannello di legno di pioppo che si è deformato nel corso degli anni, causando la comparsa di una crepa. Per evitare ulteriori danni, la Gioconda deve essere conservata in una teca di vetro a temperatura e umidità controllate.

È il ritratto più famoso del mondo. Raffigura Lisa Gherardini, moglie del mercante di seta fiorentino Francesco del Giocondo - da cui il nome italiano La Gioconda e quello francese La Joconde. Il 21 agosto 1911, al Louvre si scatenò il panico: la Gioconda era scomparsa! La notizia si diffuse a macchia d’olio e furono promesse generose ricompense per il suo ritorno, ma tutto fu inutile. Per oltre due anni non si seppe più nulla del dipinto. Poi, come avete letto in apertura della newsletter, un giorno, Vincenzo Peruggia, un vetraio che aveva lavorato al Louvre, cercò di vendere il dipinto più famoso del mondo a un mercante d’arte italiano che avvertì le autorità. Così la Monna Lisa fu recuperata e la sua fama fu ancora più grande.

Oggi il capolavoro di Leonardo è al sicuro anche se lo scorso mese di maggio un giovane ha lanciato una torta contro il dipinto che grazie alla teca di vetro che la protegge non ha subito alcun danno. L’uomo si è avvicinato al quadro spingendo una sedia a rotelle e indossando una parrucca, avrebbe compiuto il suo gesto non per attaccare o danneggiare l’opera, ma per sensibilizzare il pubblico sull’importanza di occuparsi del pianeta. In un video girato da un visitatore e postato su Twitter, si sente infatti il giovane che dice, in francese, “artisti, pensate alla Terra! C’è gente che la sta distruggendo, per questo ho compiuto questo gesto, pensate al pianeta”. Un’azione a sfondo ecologista dunque. L’uomo è stato scortato fuori dal museo dagli addetti alla sorveglianza, e la teca è stata immediatamente ripulita, durante un’azione ripresa dai tantissimi visitatori che in quel momento affollavano la sala dove si trova il capolavoro di Leonardo da Vinci.

Nel 2019, la Salle des États è stata sottoposta all’ultimo di una serie di abbellimenti: le sue pareti sono state ridipinte di un profondo blu notte, che esalta il contrasto con la ricca tavolozza di rossi, gialli, arancioni e verdi dei capolavori veneziani esposti in questa sala.

Una sala storica, La Salle des États, progettata dall’architetto Hector Lefuel, fu costruita tra il 1855 e il 1857. Durante il Secondo Impero, ospitò le principali sessioni legislative presiedute da Napoleone III, che insistette per una sontuosa decorazione pittorica a gloria dell’Impero. Dopo la sua caduta dal potere nel 1870, la sala divenne parte del museo e fu utilizzata per esporre la pittura francese del XIX secolo. All’inizio della Terza Repubblica, l’architetto Edmond Guillaume adattò la sala alla sua nuova destinazione: le finestre furono chiuse per dare più spazio alle opere d’arte e fu aggiunto un soffitto di vetro che introduceva la luce dall’alto per evitare i riflessi sui dipinti. Dopo la seconda guerra mondiale, le opere di artisti francesi furono sostituite da dipinti veneziani.

Di Alberto Toscano (Storico e saggista). Un furto può, senza volerlo, servire la causa dell’oggetto che è stato rubato. Monna Lisa (che i francesi chiamano spesso e volentieri Mona Lisa) era ovviamente notissima anche prima di essere rubata, ma da quell’istante dell’agosto 1911 divenne la superstar mondiale dell’arte, della cultura e del Bello con la B maiuscola. La popolarità attuale della Gioconda ha dunque beneficiato del boom della comunicazione coinciso con quello della diffusione dei giornali al tempo della Belle Époque, quando in Francia e altrove le tirature dei maggiori quotidiani superavano il milione di copie. Le vicende giudiziarie erano un piatto prelibato sulle pagine di questi giornali ed entusiasmavano l’opinione pubblica. Nel 1905, lo scrittore francese Maurice Leblanc crea il personaggio del ladro gentiluomo Arsenio Lupin, che si incarna immediatamente nel teatro e appunto nella stampa periodica: il 15 aprile 1911, dunque alla vigilia del furto della Gioconda, la popolare rivista parigina “Je sais tout” pubblica un fantasioso reportage intitolato “Les confidences d’Arsène Lupin”. È il terreno ideale per trasformare un clamoroso fatto di cronaca nella celebrazione mondiale del mistero e del complotto, a tutto vantaggio dell’ormai potentissima industria dell’informazione. Eccoci dunque al 21 agosto 1911, quando Vincenzo si trova per ragioni di lavoro all’interno del Louvre in un momento in cui il museo è chiuso al pubblico. L’operaio-pittore-decoratore italiano guarda negli occhi Monna Lisa. La tentazione è forte e Vincenzo decide di scappare con lei. La tiene segregata nella squallida stanza parigina in cui trascorre le sue notti di immigrato in Francia con poche risorse e sempre meno speranze. Quando il Louvre scopre l’assenza del quadro, lo shock è immenso. Come se un genio del crimine avesse voluto mettersi in competizione col genio dell’arte, sfidando al tempo stesso una polizia che i giornali cominciano a prendere in giro insieme alle autorità che avrebbero dovuto vigilare sul pubblico patrimonio. Il Carnevale di Nizza del 1912 ha come ospite d’onore un carro allegorico molto particolare: un grande asino in cartapesta che porta attorno al collo una cornice vuota. Nessuno pensa di paragonare Monna Lisa a un asino. La figura dell’asino la fanno gli inquirenti, ormai da mesi alla ricerca del dipinto introvabile. La stampa internazionale ironizza e si scandalizza. Quella francese si scatena. Vincenzo fa tremare la Francia. Proprio il carattere banale e casuale della sua azione manda in tilt le logiche degli inquirenti. Tutti pensano a un piano studiato nei minimi dettagli, mentre il furto della Gioconda è avvenuto in condizioni di sconcertante semplicità. E proprio qui sta la chiave della fine del giallo. Vincenzo rivela tutta la sua ingenuità e la sua goffaggine cercando nel 1913, a Firenze, di ottenere un vantaggio finanziario in cambio della consegna del dipinto all’Italia. Resta il fatto che la surreali impresa di un immigrato regala al quadro di Leonardo una popolarità che neppure un genio della comunicazione avrebbe mai potuto procurarle. Un doppio tsunami di attenzione planetaria. Prima in occasione del furto e poi per il sorprendente e ormai inatteso ritrovamento. Grazie anche a quell’immigrato italiano, mezzo imbianchino e mezzo decoratore, miliardi di esseri umani non hanno più potuto fare a meno del sorriso di Monna Lisa. Nel giugno del 1914, al momento del processo di Firenze a carico di Vincenzo Peruggia, l’Italia intera conta sulla clemenza dei giudici nei confronti di un personaggio che – secondo buona parte dell’opinione pubblica – ha tolto un bene prezioso alla ricca Francia per darlo alla povera Italia. I giudici non infieriscono. Vincenzo è condannato a dodici mesi e mezzo di reclusione, poi ridotti a sette mesi e otto giorni. Il suo soggiorno dietro le sbarre è relativamente breve, ma la prigione diventa per lui un dolce ricordo a paragone della vita che lo attende da uomo libero. Scoppia la Grande Guerra e Vincenzo è in prima linea sul fronte delle Alpi, dove da buon soldato italiano combatte come alleato dei francesi. Rischia la vita e viene fatto prigioniero. Torna la pace e lui torna in Francia. A Saint-Maur-des-Fossés, vicino a Parigi, fa una vita normale, nascondendo la sua vera identità. La sua morte non è la conseguenza del suo crimine ma quella del suo lavoro. La malattia professionale (avvelenamento da piombo, contenuto nelle vernici che ha usato e respirato a lungo svolgendo il proprio mestiere) e le conseguenze della guerra lo hanno messo in ginocchio. La giustizia lo ha punito per ciò che ha fatto illegalmente. La vita lo punisce in modo molto terribilmente più duro per ciò che ha fatto lavorando onestamente. 

Alberto Toscano ha scritto Gli italiani che hanno fatto la Francia. Da Leonardo a Pierre Cardin per i tipi di Baldini + Castoldi in cui racconta anche della vicenda di Vincenzo Peruggia.

Libro: Il sorriso della Gioconda, di Mario Alinei, Il Mulino, Bologna, 2006. Libro: Il furto della Gioconda, di Jean-Yves Le Naour, Odoya, Bologna, 2013. Sceneggiato: Il furto della Gioconda. Diretto da Renato Castellani. Con Renzo Palmer, Bruno Cirino, Enzo Cerusico, Cecilia Polizzi. Prodotto dalla RAI. Italia, 1978. Miniserie TV: L’uomo che rubò la Gioconda. Diretto da Fabrizio Costa. Con Alessandro Preziosi, Violante Placido, Frédéric Pierrot, Cécile Cassel, Tom Novembre. Italia, Francia, Svizzera 2006. Brano musicale: Monna Lisa. Autore Ivan Graziani. Album “Pigro”, 1977 Numero Uno. Museo: È possibile ammirare il dipinto di Leonardo da Vinci, La Gioconda, presso il Museo del Louvre in Rue de Rivoli, 75001 Paris, Francia. Salle des États Room 711, Denon wing, Level 1. Video

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