Tutto quello che sai darmi è un mondo di plastica - Linkiesta.it

2022-10-08 21:53:00 By : Mr. Andy Yang

In otto anni, l’ambientalista statunitense Lauren Singer non aveva mai destinato alcun rifiuto in discarica. Ma il mese scorso, attraverso un accorato post su Instagram, ha confessato ai suoi 383mila follower che la nuova realtà imposta dal Covid-19 l’ha cambiata: «Ho sacrificato i miei valori e acquistato prodotti in plastica. Molti, a dire il vero, e da quando so la plastica al momento non è riciclabile né a New York, né forse altrove. (…) Perché sono costretta ad andare contro qualcosa a cui ho attivamente dato la priorità e promosso?».

L’ammissione di Singer è in un certo senso il rovescio della medaglia di una situazione abbastanza paradossale. La pandemia da un lato è infatti stata un vero toccasana per l’ambiente: grazie alla chiusura delle industrie e alla riduzione di aerei e macchine in circolazione stiamo vomitando meno gas serra, e la qualità dell’aria, come riporta il Washington Post, è notevolmente migliorata. «Il mondo respira meglio», afferma Tom Szaky, fondatore e CEO della società di riciclaggio TerraCycle a Wired USA, «la cosa ironica è che però si sveglierà con una crisi dei rifiuti ancora più grande».

Il punto di partenza è l’industria del riciclo, messa in ginocchio principalmente da tre fattori. Innanzitutto, dato che la plastica è petrolio, quando i prezzi del primo calano – vedi negli ultimi anni – la seconda diventa più economica da produrre. Ciò corrompe l’economia del riciclo: per essere finanziariamente sostenibile, un’operazione di riciclo deve produrre più soldi di quanto costi raccogliere e smaltire i rifiuti. Se il petrolio (il cui prezzo è crollato a causa della crisi del coronavirus), e quindi la plastica, è cheap in partenza, a un’azienda non conviene elaborare e vendere materiali riciclati che finiscono per essere più costosi della plastica vergine realizzata da un’altra società. In parole povere, non esiste un modello di business valido a supporto di un’azione potenzialmente virtuosa.

In secondo luogo, per decenni Europa e Stati Uniti hanno venduto montagne di materiali riciclabili alla Cina per la loro elaborazione. Peccato che nel 2018 la Cina abbia reagito con un elegante «no, grazie», vietando le importazioni di plastica e carta e privando moltissimi Paesi di un mercato per i propri rifiuti. Terzo, ma non meno importante, un aspetto che pochi stanno notando: «la ‘qualità’ dei rifiuti sta diminuendo», puntualizza Szaky, poiché segue il fenomeno dell’alleggerimento che era in corso già prima dell’inizio della pandemia. Rendendo le bottiglie di plastica più sottili, il produttore risparmia utilizzando meno plastica; allo stesso tempo, però, «per un’impresa di smaltimento diventa progressivamente meno redditizio preoccuparsi di riciclare».

Su un’industria comunque provata a monte s’è poi abbattuta la pandemia: le materie plastiche monouso hanno guadagnato sempre più popolarità, spinte da acquisti d’impulso (spesso dettati dal panico) di articoli usa e getta come bottiglie d’acqua; diversi prodotti avvolti in più plastica del necessario; disinfettanti per le mani; guanti monouso; salviettine igienizzanti etc. Oltre a questo, riporta Politico, molti membri dell’industria delle materie plastiche stanno sfruttando la paura e l’incertezza attorno al Covid-19 per ottenere sospensioni o rollback delle misure ambientali conquistate duramente in passato per ridurre l’inquinamento. Le motivazioni poggiano le basi su «un’abbondanza di cautela», ragione per ripristinare la diffusione di sacchetti di plastica monouso. La preoccupazione per la sicurezza e per la cross-contaminazione hanno causato nel mondo l’abrogazione di divieti a livello statale, municipale e aziendale, a cui s’aggiunge il veto imposto da supermercati e negozi di alimentari: gli acquirenti non possono portare i propri sacchetti riutilizzabili e sono costretti a usufruire di quelli di plastica monouso. Aperta e chiusa parentesi: non esistono studi davvero affidabili circa la capacità delle borse riutilizzabili di trasmettere malattie, mentre invece è noto – grazie a un’analisi dei National Insitutes of Health, i più importanti istituti di ricerca medica pubblici americani – che il SARS-CoV-2 può sopravvivere sulla plastica e sulle superfici di acciaio inossidabile fino a tre giorni e sul cartone fino a un giorno.

A peggiorare le cose ci pensa il diluvio di rifiuti che fuoriescono dagli ospedali. Le maschere protettive in plastica utilizzate dai medici nella cura di pazienti affetti da Covid-19 non possono essere semplicemente riciclate, in quanto rifiuti a rischio biologico: qualsiasi rifiuto appartenente a tale categoria, inclusi test sierologici e tamponi, richiede un adeguato imballaggio e l’invio a una struttura apposita per l’incenerimento. A ciò s’aggiunge il numero pressoché infinito di mascherine, guanti e altri dispositivi di protezione individuale che le persone gettano o dimenticano con noncuranza per strada, «intasando i tombini e lasciando che i rifiuti confluiscano nei corsi d’acqua», spiega Ocean Conservacy.

Da ultimo, il delivery. Il ristorante che un tempo si serviva di piatti di ceramica e posate in metallo oggi ci vende comode e ampie borse piene di cibi confezionati singolarmente in piattini di plastica, insieme a posate – magari non richieste – anch’esse di plastica. Ovvio che a nessuno passerebbe per l’anticamera del cervello di riutilizzare le suddette comode e ampie borse: non lo facevamo prima, figurati adesso.

Seppure l’industria fosse in grado di gestire tale ondata di rifiuti da riciclare e seppure fosse economicamente fattibile processarli tutti, molti riciclatori hanno chiuso durante la fase più critica della pandemia. Morale, i piazzali degli impianti di riciclo sono stracolmi di plastica, alluminio e metallo, una quantità che rischia di far esplodere la filiera della gestione della raccolta differenziata dei rifiuti di imballaggio. Costretti in casa stiamo consumando sempre di più e produciamo il 30% in più di materiale in raccolta differenziata, ma le industrie che lo possono utilizzare sono (o, meglio, erano) ferme.

L’happy ending sembra lontano, anche facendo volare la fantasia: se e quando avremo un vaccino, la crisi dei rifiuti si ridimensionerà, ma i cieli torneranno a riempirsi di smog a causa del ritorno alla normalità, e (forse) saremo ancora tentati di affidarci alle materie plastiche monouso per paura di condividere germi e batteri. Ciononostante, è possibile fare meglio: TerraCycle, ad esempio, negli Stati Uniti porta avanti un programma che consegna prodotti di vario genere di noti brand (Procter & Gamble, Unilever, Nestlé, PepsiCo, Coca-Cola, Haagen Dazs ) in contenitori durevoli, che i clienti rispediscono per la pulizia e il riuso una volta in cui il prodotto è finito.

Il riciclo, però, non può più rappresentare da solo una rassicurante panacea. Anzi, è stata proprio la lobby della plastica a metterci in un simile casino. Spostando la colpa dell’inquinamento su noi consumatori, l’industria ci ha manipolati, inducendoci a pensare che il problema fosse esclusivamente nostro: la soluzione degli ultimi decenni è stata incoraggiare le persone a riciclare, non chiedere al settore di limitare la produzione della plastica monouso. Certo, siamo individui pigri e abitudinari, la plastica è dannatamente utile e ingenti investimenti da parte di industrie e governi aiuterebbero a sviluppare migliori tecnologie di riciclo o materie plastiche più facilmente riciclabili, volte ad aumentare la redditività del riciclo stesso. Ma secondo Rachel Meidl, professore associato presso il Center for Energy Studies del Baker Institute, Texas, c’è dell’altro: «indipendentemente dalla quantità di fondi destinati agli sforzi di riciclo, è necessario che avvenga un significativo cambiamento di paradigma nel comportamento umano. La plastica andrebbe considerata come una risorsa, non come un rifiuto». E se sarà proprio il coronavirus a farcene rendere conto, potremo davvero dire che non tutti i mali vengono per nuocere.

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